Poetry

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sabato 21 febbraio 2015

SEPTEM SERMONES AD MORTUOS

Mandala di Jung intitolato  Systema munditotius elaborato nel 1916, simbolicamente correlato alla visione cosmogonica dei Septem sermones


Dopo la traumatica rottura con Sigmund Freud nel 1912, Carl Gustav Jung venne emarginato e aspramente criticato dall’ambiente psicanalitico: era solo un mistico; termine che, secondo il riduzionismo positivistico tipico del freudismo,  valeva come sinonimo di ciarlatano.
Il senso di isolamento e di abbandono – così ci racconta egli stesso nella sua autobiografia Ricordi, sogni, riflessioni – provocò nello psichiatra svizzero un lungo periodo di incertezza interiore e di disorientamento, stato assai favorevole all’emersione di frammenti e figure dell’inconscio e alla loro numinosa manifestazione diretta. “Si scatenò un flusso incessante di fantasie, e feci del mio meglio per non perdere la testa…Ero inerme di fronte a un mondo estraneo dove tutto appariva difficile e incomprensibile…Le tempeste si susseguivano, e che potessi sopportarle, era solo questione di forza bruta. Per altri hanno rappresentato la rovina: così per Nietzsche, Hoelderlin, e molti altri…Nel reggere a questi assalti dell’inconscio ero sostenuto dal saldo convincimento di obbedire a una volontà superiore
Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, nel 1914, confermò al fondatore della Psicologia Analitica l’intuizione che le proprie inquietanti derive psichiche non erano casuali ed isolate ma rispecchiavano l’angoscia collettiva di un mondo che stava sprofondando nell’abisso.
In quel momento di estrema crisi l’immaginario gnostico, nato e sviluppatosi in un altro momento di drastici sconvolgimenti annuncianti il crollo del Mondo Antico nei primi secoli dopo Cristo, riaffiorava in tutta la sua lussureggiante ricchezza sommergendo lo psichiatra e segnandolo indelebilmente per il resto della sua vita e della sua attività creativa.
La figura di Abraxas, il Dio/diavolo degli gnostici, venne evocata con sorprendente frequenza non solo nei sogni e nelle pagine di Jung, ma in quelle, di poco posteriori, del quasi conterraneo Hermann Hesse nel romanzo Demian (scritto nel 1917 e pubblicato nel 1919): “Demian aveva detto allora che possediamo bensì un Dio da noi venerato, ma egli rappresenta soltanto una metà del mondo arbitrariamente staccata (il mondo “chiaro”, ufficiale, lecito). Si deve però poter venerare il mondo intero e perciò o si deve avere un Dio che è anche diavolo o bisogna introdurre accanto al servizio divino anche un servizio diabolico. Ed ecco ora Abraxas, il Dio che era Dio e diavolo insieme
Questo concetti, espressi dall’autore de Il Lupo della steppasono molto vicini a quelli che Jung andrà elaborando negli anni seguenti, con il procedere parallelo dei suoi studi sullo gnosticismo e sull’alchimia, tanto vicini da farci sospettare che il Demian del romanzo non fosse per Hesse altri che un alter-ego letterario di Jung stesso: si ricordi che lo psichiatra portò fino alla morte un anello con un castone alessandrino raffigurante Abraxas e che lo scrittore venne per qualche anno in analisi da lui “ma non riuscì ad andare in fondo
Nel 1916, finalmente, questa magmatica atmosfera psichica giunge al culmine: dando quasi voce diretta ad Abraxas, Jung identificandosi  in Basilide - uno gnostico alessandrino dell’inizio del II sec. d.C. – produce, praticamente in stato di trance,  un testo di scrittura automatica, i Septem Sermones ad Mortuos. La stesura del libretto è anticipata da una fenomenologia che potremmo tranquillamente definire “paranormale”: i cinque figli dell’analista ancora piccoli, vedono figure fantomatiche aggirarsi per le stanze e disturbare i loro sonni, il campanello di casa suona più volte senza che ci sia nessuno alla porta. “Tutta la casa era come abitata da una folla di gente, come se fosse stipata di spiriti. Si affollavano fin sotto la porta e si aveva la sensazione di poter respirare a fatica (8).” Anche Jung comincia a spaventarsi ed ode i morti gridare in coro: “Ritorniamo da Gerusalemme, dove non abbiamo trovato quel che cercavamo”. Con questa frase inizia il testo che lo psichiatra, scrivendo febbrilmente, termina in tre sole sere: appena presa in mano la penna la folla è sparita, l’invasione è cessata. Jung riconosce immediatamente il numen di un archetipo, una costellazione inconscia che si manifesta in visione: come terra dei morti, terra degli antenati, voce “dell’Inesplicabile, dell’Irrisolto, dell’Irredento.

Sermone I

I morti erano di ritorno da Gerusalemme, dove non avevano trovato ciò che cercavano. Mi  pregarono di lasciarli entrare e implorarono il mio verbo, e così iniziai il mio insegnamento:  Ascoltate: io inizio dal nulla. Il nulla è uguale alla pienezza. Nell’infinito il pieno è come il vuoto. Il nulla è vuoto e pieno. Potreste dire altrettanto bene qualche altra cosa del nulla, per esempio che è bianco e nero o che non è o che è. Una cosa infinita ed eterna non ha alcuna qualità poiché ha tutte le qualità.
Noi chiamiamo il nulla o la pienezza il PLEROMA. In esso sìa il pensiero che l’essere cessano, poiché l’eterno e infinito non possiede qualità. In esso non c’è essere, perché allora sarebbe distinto dal pleroma, e possederebbe qualità che lo distinguerebbero come un che di diverso dal pleroma.
Nel pleroma c’è nulla e tutto. Non giova riflettere sul pleroma, perché ciò significherebbe autodissolversi.
La CREATURA non è nel pleroma ma in se stessa. Il pleroma è inizio e fine della creatura. La pervade come la luce del sole pervade l’aria dovunque. Benché il pleroma pervada interamente, pure la creatura non ha parte in questo, come un corpo completamente trasparente non diventa ne’ chiaro ne’ scuro per via della luce che lo pervade. Noi siamo però il pleroma stesso, poiché siamo una parte dell’eterno e infinito. Ma non ne siamo parte, perché siamo infinitamente lontani dal pleroma, non spazialmente o temporalmente ma ESSENZIALMENTE, in quanto siamo distinti dal pleroma nella nostra essenza di creatura, confinata nel tempo e nello spazio.
Ma poiché siamo parti del pleroma, il pleroma è anche in noi. Infinito, eterno e intero è il pleroma anche nel punto più piccolo, poiché piccolo e grande sono qualità in esso contenute. Esso è il nulla che è dovunque intero e continuo. Solo figurativamente quindi io parlo della creatura come parte del pleroma, perché in effetti il pleroma non è diviso in nessuna parte, essendo il nulla. Noi siamo anche l’intero pleroma perché, figurativamente, il pleroma è il punto più piccolo (immaginato soltanto, non esistente) in noi e l’illimitato firmamento intorno a noi. Ma perché mai parliamo allora del pleroma, dal momento che esso è tutto e nulla?
Ne parlo per avere un qualsiasi punto d’inìzio, e per liberarvi dall’illusione che in qualche luogo, fuori o dentro, vi sia un qualcosa di fermo o in qualche modo di stabilito fin dall’inizio. Ogni cosa cosiddetta fissa e certa è soltanto relativa. Soltanto ciò che è soggetto a mutare è fisso e certo.
Ciò che è mutevole però è la creatura, quindi essa è l’unica cosa fissa e certa; perché ha delle qualità, ed è anzi qualità essa stessa.
E a questo punto domandiamoci: come fu originata la creatura? Le creature hanno origine, ma non la creatura, perché essa è la qualità del pleroma stesso, così come la non- creazione, la morte eterna. In ogni tempo e luogo c’è creatura, in ogni tempo e luogo c’è morte. Il pleroma ha tutto, distinzione e indistinzione.
La distinzione è la creatura. Essa è distinta. La distinzione è la sua essenza, e perciò essa distingue. Di conseguenza l’uomo distingue perché la sua natura è la distinzione. Perciò egli distingue anche le qualità del pleroma che non esistono. Le distingue fuori dalla sua natura. Quindi l’uomo deve parlare delle qualità del pleroma che non esìstono.
A che serve parlarne, direte? Hai detto tu stesso che è vana cosa ragionare sul pleroma!
Vi ho detto questo per liberarvi dall’illusione che si possa riflettere sul pleroma. Quando noi distinguiamo le qualità del pleroma parliamo in base alla nostra distinzione e a proposito della nostra distinzione, ma non diciamo nulla circa il pleroma. Della nostra distinzione, però, è necessario parlare, affinchè possiamo distinguere a sufficienza noi stessi. La nostra natura è distinzione. Se non siamo fedeli a questa natura non distinguiamo abbastanza noi stessi. Perciò dobbiamo fare distinzioni delle qualità.
Sermone II
Nella notte i morti stavano lungo i muri e gridavano: Vogliamo sapere di Dio. Dov’è Dio? Dio è morto?
Dio non è morto, egli vive come sempre. Dio è creatura, perché è qualcosa di definito e quindi distinto dal pleroma. Dio è qualità del pleroma, e tutto ciò che ho detto della creatura vale anche per lui.
Egli è tuttavia distinto dalla creatura perché è molto più indefinito e indeterminabile di lei. E’ meno distinto della creatura perché la base del suo essere è pienezza effettiva. Solo nella misura in cui è definito e distinto egli è creatura, e in questa misura è la manifestazione della pienezza effettiva del pleroma.
Tutto ciò che noi non distinguiamo cade nel pleroma e si annulla col suo opposto. Perciò, se non distinguiamo Dio, la pienezza effettiva è estinta in noi.
Dio è anche il pleroma stesso, così come ogni più piccolo punto nel creato e nell’increato è il pleroma stesso.
Il vuoto effettivo è la natura del demonio. Dio e demonio sono le prime manifestazioni del nulla che chiamiamo pleroma. E’ indifferente se il pleroma è o non è, poiché si annulla in ogni cosa. Non così la creatura. Nella misura in cui Dio e demonio sono creature, non si eliminano l’un l’altro, ma stanno l’uno contro l’altro come opposti effettivi. Non abbiamo bisogno di provare la loro esistenza, basta il fatto che dobbiamo sempre parlarne. Anche se entrambi non fossero, la creatura tornerebbe sempre a distinguerli dal pleroma partendo dalla sua natura di distinzione.
Tutto ciò che la distinzione estrae dal pleroma è una coppia di opposti. Perciò a Dio appartiene sempre anche il demonio.
Questa inseparabilità è così intima e, come avete appreso, così indissolubile anche nella nostra vita come lo è il pleroma stesso. Ciò deriva dal fatto che entrambi sono vicinissimi al pleroma, nel quale tutti gli opposti si annullano e unificano.
Dio e il demonio sono distinti mediante pieno e vuoto, generazione e distruzione.
L’EFFETTIVITÀ’ è comune a entrambi. L’effettività li unisce. Quindi l’effettività è al di sopra di loro ed è un Dio sopra Dio, poiché nel suo effetto unisce pienezza e vuotezza. Questo è un Dio che voi non avete conosciuto, perché gli uomini lo hanno dimenticato. Noi lo chiamiamo col nome suo ABRAXAS. Esso è più indistinto ancora di Dio e del demonio. Per distinguere Dio da lui, chiamiamo Dio Helios o sole.
Abraxas è effetto. Niente gli sta opposto se non l’ineffettivo; perciò la sua natura effettiva si dispiega liberamente. L’inefettivo non è, e non resiste. Abraxas sta al di sopra del sole e al dì sopra del demonio. E’ probabilità improbabile, realtà irreale. Se il pleroma avesse un essere, Abraxas sarebbe la sua manifestazione.
E’ l’effettivo stesso, non un effetto particolare, ma effetto in generale.
E’ realtà irreale perché non ha effetto definito.
E’ anche creatura perché è distinto dal pleroma.
Il sole ha un effetto definito, e così pure iI demonio. E quindi ci appaiono molto più effettivi di Abraxas che è indefinito.
E’ forza, durata, mutamento.
A questo punto i morti fecero un grande tumulto, perché erano cristiani.





                                                                                                   abraxas




Sermone III
Come brume sorgenti da una palude i morti si accostarono e implorarono: parlaci ancora del Dio supremo.
Abraxas è il Dio duro a conoscere. Il suo potere è il più grande perché l’uomo non lo vede. Del sole egli vede il summum bonum, del demonio l’infimum malum; ma di Abraxas la VITA, indefinita sotto tutti gli aspetti, che è la madre del bene e del male.
Più esile e debole appare la vita rispetto al summum bonum; perciò anche è difficile concepire che Abraxas trascenda in potenza perfino il sole, che è la fonte radiosa di ogni forza vitale.
Abraxas è il sole, e al tempo stesso la gola eternamente succhiante del vuoto, di ciò che sminuisce e smembra, del demonio.
Duplice è il potere di Abraxas. Ma voi non lo vedete, perché ai vostri occhi gli opposti in conflitto di questo potere si annullano.
Ciò che il Dio sole dice è vita.
Ciò che il demonio dice è morte.
Ma Abraxas pronuncia la parola santificata e maledetta che è vita e morte insieme. Abraxas genera verità e menzogna, bene e male, luce e tenebra, nella stessa parola e nello stesso atto. Perciò Abraxas è terribile.
E’ splendido come il leone nell’attimo in cui abbatte la preda. E’ bello come un giorno di primavera.
Si, è il grande Pan in persona e anche il piccolo. E’ Priapo.
E’ il mostro del mondo sotterraneo, un polipo dalle mille braccia, nodo intricato di serpenti alati, frenesia.
E’ l’ermafrodito del primissimo inizio.
E’ il signore dei rospi e delle rane che vivono nell’acqua e calpestano la terra, che cantano in coro a mezzogiorno e a mezzanotte.
E’ la pienezza che si unisce col vuoto.
E’ il santo accoppiamento,
E’ l’amore e il suo assassinio,
E’ il santo e il suo traditore,
E’ la luce più splendente del giorno e la notte più oscura della follia,
Vederlo significa cecità,
Conoscerlo è malattia,
Adorarlo è morte,
Temerlo è saggezza,
Non resistergli è redenzione.
Dio dimora dietro il sole, il demonio dietro la notte.
Ciò che Dio genera dalla luce, il demonio lo spinge nella notte. Ma Abraxas è il mondo, il suo divenire e il suo passare. Su ogni dono del Dio sole il demonio getta la sua maledizione.
Ogni cosa che chiedete supplicando al Dio sole genera un atto del demonio.
Ogni cosa che create col Dio sole da al demonio il potere di agire.
Questo è il terribile Abraxas.
E’ la creatura più possente, e in lui la creatura ha timore dì se stessa.
E’ l’opposizione manifesta della creatura al pleroma e al nulla.
E’ l’orrore che il figlio prova per la madre.
E’ l’amore che la madre prova verso il figlio.
E’ la gioia della terra e la crudeltà del cielo.
Di fronte al suo volto l’uomo impietrisce.
Di fronte a lui non c’è domanda ne’ risposta.
E’ la vita della creatura.
E’ l’operazione della distinzione.
E’ l’amore dell’uomo.
E’ la voce dell’uomo.
E’ l’apparenza e l’ombra dell’uomo.
E’ la realtà illusoria.
Allora i morti ulularono e si infuriarono, perché essi erano imperfetti.
Sermone IV
I morti invasero il luogo mormorando e dissero: Parlaci degli dei e dei demoni, maledetto!
Il Dio sole è il massimo bene, il demonio è l’opposto, perciò voi avete due dei. Ma ci sono molte cose alte e buone e molti grandi mali, e tra questi vi sono due dei-demoni; uno è QUELLO CHE BRUCIA, l’altro è QUELLO CHE CRESCE.
Quello che brucia è EROS, in forma di fiamma. La fiamma da luce consumandosi. Quello che cresce è l’ALBERO DELLA VITA. Esso germoglia ammassando nel crescere materia vivente.
Eros s’infiamma e muore, invece l’Albero della Vita cresce lento e costante per tempi incommensurabili.
Buono e male si uniscono nella fiamma.
Buono e male si uniscono nella crescita dell’albero.
Nella loro divinità vita e amore sono opposti.
Incommensurabile come la moltitudine delle stelle è il numero degli dei e dei demoni.
Ogni stella è un Dio, e ogni spazio che una stella riempe è un demonio. Ma la vuotezza e
pienezza del tutto è il pleroma.
L’effettività del tutto è Abraxas, al quale sta opposto soltanto l’irreale.
Quattro è il numero degli dei principali, come quattro è il numero delle misure del mondo.
Uno è l’inizio, il Dio sole.
Due è Eros, perché unisce due insieme e si estende in splendore.
Tré è l’Albero della Vita, perché colma spazio con forme corporee.
Quattro è il demonio, perché apre tutto ciò che è chiuso. Tutto ciò che ha forma e corpo, egli lo dissolve; è il distruttore nel quale ogni cosa diventa nulla.
Me beato, a cui è stato dato di conoscere la molteplicità e diversità degli dei. Guai a voi, che sostituite questa irriducibile molteplicità con l’unico Dio. Così facendo provocate il tormento causato dall’incomprensione, e mutilate la creatura, la cui natura e il suo scopo è la distinzione. Come potete essere fedeli alla vostra natura se cercate di mutare i molti in uno? Ciò che voi fate degli dei è fatto a voi. Diventate tutti uguali e perciò la vostra natura è
mutilata.
L’uguaglianza prevarrebbe non per volere di Dio ma per volere dell’uomo, perché gli dei sono molti mentre gli uomini sono pochi. Gli dei sono potenti e sopportano la loro
molteplicità, perché al pari delle stelle dimorano in solitudine, divisi l’uno dall’altro da immense distanze. Ma gli uomini sono deboli e non sopportano la loro molteplicità, perciò dimorano insieme e abbisognano di comunanza per poter reggere alla loro particolarità. A scopo di redenzione io vi insegno la verità respinta, a causa della quale io sono stato respinto.
La molteplicità degli dei corrisponde alla molteplicità degli uomini.
Innumerevoli dei attendono di diventare uomini. Innumerevoli dei sono stati uomini. L’uomo partecipa alla natura degli dei, proviene dagli dei e va verso Dio.
Come non giova riflettere sul pleroma, così non giova adorare la molteplicità degli dei. Meno di ogni cosa giova adorare il primo Dio, la pienezza effettiva e il summum bonum. Con la nostra preghiera non possiamo aggiungervi nulla ne’ cavarne nulla, perché il vuoto effettivo inghiotte tutto. Gli dei splendenti formano il mondo celeste. Esso è molteplice e si espande cresce all’infinito. Il Dio sole è il Signore supremo di questo mondo.
Gli dei tenebrosi formano il mondo terreno. Sono semplici e diminuiscono e rimpiccioliscono all’infinito. Il demonio è l’infimo signore del mondo terreno, lo spirito lunare, satellite della terra, più piccolo, più freddo e più morto della terra.
Non c’è differenza tra il potere degli dei celesti e quello degli dei terrestri. Gli dei celesti diventano sempre più grandi, gli dei terrestri sempre più piccoli. Incommensurabile è il movimento degli uni e degli altri.
Sermone V
I morti urlarono in tono di derisione: Insegnaci, folle, la tua dottrina sulla Chiesa e sulla santa comunione.
Il mondo degli dei si manifesta nella spiritualità e nella sessualità.
Gli dei celesti compaiono nella spiritualità, quelli terrestri nella sessualità.
La spiritualità concepisce e abbraccia. Essa è femmina e perciò la chiamaia MATER COELESTIS, madre celeste.
La sessualità genera e crea. Essa è maschile, e perciò la chiamano PHALLOS, il padre terrestre,
La sessualità dell’uomo è più terrestre, la sessualità della donna è più spirituale.
La spiritualità dell’uomo è più celeste, procede verso il più grande.
La spiritualità della donna è più terrestre, procede verso il più piccolo.
Menzognera e diabolica è la spiritualità dell’uomo che procede verso il più piccolo.
Menzognera e diabolica è la spiritualità della donna che procede verso il più grande.
Ognuna deve procedere verso il proprio luogo.
Uomo e donna diventano demoni l’uno per l’altra quando non dividono le loro strade
spirituali, perché la natura della creatura è la distinzione.
La sessualità dell’uomo va verso il terrestre, la sessualità della donna verso lo spirituale.
Uomo e donna diventano demoni l’uno per l’altra se non distinguono la loro sessualità.
L’uomo deve imparare a conoscere il più piccolo, la donna il più grande.
L’uomo deve distinguersi sia dalla spiritualità che dalla sessualità. Deve chiamare la spiritualità Madre e porla tra il cielo e la terra. Deve chiamare la sessualità Phallos e porlo tra sé e la terra, perché la Madre e il Phallos sono demoni sovrumani e manifestazioni del mondo degli dèi. Essi sono più effettivi per noi che non gli dei, poiché sono similissimi alla nostra natura. Se non vi distinguete dalla sessualità e dalla spiritualità, e non le considerate come una natura al di sopra di voi e intorno a voi, diventate loro preda come qualità del pleroma. Spiritualità e sessualità non sono vostre qualità, non sono cose che possedete e contenete: esse posseggono e contengono voi, perché sono demoni potenti, manifestazioni degli dei, e quindi cose che vanno al di là di voi, esistenti per se stesse. Nessun uomo ha una spiritualità di per sé, o una sessualità di per sé, ma sta sotto la legge della spiritualità e della sessualità. Perciò nessuno sfugge a questi demoni. Dovete considerarli demoni, e un compito e pericolo comune, un fardello comune che la vita ha posto sulle vostre spalle.
Quindi la vita è per voi anche un compito e un pericolo comune, come lo sono gli dei, e primo fra tutti il terribile Abraxas.
L’uomo è debole, perciò la comunione è indispensabile. Se la vostra comunione non è sotto il segno della Madre, allora è sotto il segno del Phallos. Nessuna comunione è sofferenza e malattia. La comunione in ogni cosa è smembramento e dissoluzione.
La distinzione porta all’unicità. L’unicità è opposta alla comunione. Ma, data la debolezza dell’uomo a petto degli dèi e dei demoni e della loro legge invincibile, la comunione è necessaria. Perciò ci dev’essere tanta comunione quanta è necessaria, non a causa dell’uomo ma a causa degli dei. Gli dei vi forzano alla comunione. E quanto più vi forzano, tanto più occorre comunione, più è male.
Nella comunione ogni uomo si sottometta agli altri, di modo che la comunione sia mantenuta, perché voi ne avete bisogno.
Nell’unicità l’uomo singolo dev’essere superiore agli altri, di modo che ogni uomo appartenga a se stesso ed eviti la schiavitù.
Nella comunione ci dev’essere continenza, nell’unicità ci dev’essere prodigalità.
La comunione è la profondità, l’unicità è l’altezza.
La giusta misura nella comunione purifica e preserva.
La giusta misura nell’unicità purifica e aggiunge.
La comunione ci da il calore.
L’unicità ci da la luce.
Sermone VI
II demone della sessualità si accosta alla nostra anima come una serpe. E’ per metà anima umana e significa desiderio di pensiero. Il demone della spiritualità scende nella nostra anima come l’uccello bianco. E’ per metà anima umana e significa pensiero di desiderio. La serpe è un’anima terrena, per metà demoniaca, uno spirito, e simile agli spiriti dei morti. Al pari di questi si aggira fra le cose della terra, facendocele temere o facendo sì che eccitino la nostra bramosia. La serpe ha una natura femminile e cerca sempre la compagnia dei morti legati all’incantesimo della terra, quelli che non hanno trovato la via per passare al di là, all’unicità. La serpe è una meretrice e fornica col diavolo e con gli spiriti malvagi, è un tiranno nefasto e uno spirito tormentatore, che sempre seduce alla comunione più malvagia. L’uccello bianco è un’anima semi-celeste dell’uomo. Esso dimora presso la Madre e discende di quando in quando. L’uccello è maschile ed è pensiero effettivo. E’ casto e solitario, messaggero della Madre. Vola alto sulla terra. Ispira unicità. Porta conoscenza dai lontani che vennero prima e sono perfetti. Porta la nostra parola in alto, alla Madre. Questa intercede, ammonisce, ma non ha alcun potere contro gli dei. E’ un vaso del sole. La serpe scende e paralizza con l’astuzia il demone fallico, oppure lo pungola. Porta alla luce i pensieri astutissimi del terrestre, che strisciano per ogni crepa e aderiscono dovunque succhiando con bramosia. La serpe, certo, non lo vuole, eppure deve esserci utile. Essa sfugge alla nostra presa, mostrandoci così la vìa che con la nostra intelligenza umana non troveremmo. I morti gettarono occhiate sdegnose e dissero: Cessa di parlare di dèi e demoni e anime. Al fin fine questo ci era noto da tempo.
Sermone VII
Ma quando la notte scese i morti tornarono ad accostarsi con gesti lamentosi e dissero: C’è una cosa ancora che abbiamo dimenticato di discutere. Parlaci dell’uomo. L’uomo è una porta attraverso la quale, dal mondo esterno degli dei, dei demoni e delle anime, voi passate nel mondo interiore; dal mondo grande al più piccolo. Piccolo è l’uomo, una nullità, voi lo avete già alle spalle e vi trovate una volta ancora nello spazio senza fine, nell’infinità più piccola o più intima. A incommensurabile distanza c’è una singola stella allo zenith. Questa è il Dio singolo di questo singolo uomo, è il suo mondo, il suo pleroma. la sua divinità. In questo mondo l’uomo è Abraxas, che genera o ingoia il suo mondo. Questa stella è Dio e la meta dell’uomo. E’ il suo Dio singolo che lo guida. In lui l’uomo giunge al riposo, verso di lui procede il lungo viaggio dell’anima dopo la morte, in lui brilla come luce tutto ciò che l’uomo riporta dal mondo più grande. Questo è il solo Dio che l’uomo deve pregare. La preghiera accresce la luce della stella, getta un ponte sopra la morte, prepara la vita per il mondo più piccolo, e lenisce i desideri senza speranza del mondo più grande. Quando il mondo più grande si raffredda, la stella risplende. Nulla c’è tra l’uomo e il suo singolo Dio, per quanto l’uomo possa distogliere gli occhi dallo spettacolo fiammeggiante di Abraxas. Qui l’uomo, là il Dio. Qui debolezza e nullità, là potere eternamente creativo. Qui null’altro che tenebra e vapore glaciale, Là il sole e nient’altro che sole. A questo punto i morti si fecero silenziosi e ascesero come il fumo sopra il fuoco del pastore che nella notte custodiva il suo gregge.






ANAGRAMMA:
NAHTRIHECCUNDE
GAHINNEVERAHTUNIN
ZEHGESSURKLACH
ZUNNUS.
Nota
Jung fece pubblicare privatamente i “Septem Sermones ad Mortuos” (Sette sermoni ai
morti) in forma di opuscolo. Il libretto non  fu mai in vendita in libreria. Furono scritti negli anni 1913 -1917. Il libretto contiene cenni e anticipazioni metaforiche di pensieri che assunsero peso successivamente nell’opera scientifica di Jung, specie per quanto concerne la natura antitetica dello spirito, della vita e delle asserzioni psicologiche. A spingere Jung verso gli gnostici fu il loro modo di pensare per paradossi. Perciò Jung si identificò qui con lo scrittore gnostico Basilide (inizio del II secolo d.C.) e assunse perfino parte della sua terminologia: per esempio. Dio inteso come ABRAXAS. Fu un deliberato gioco mistificatorio. Jung acconsentì alla pubblicazione dei “Sette Sermoni” nelle sue Memorie solo dopo molte esitazioni e “per amore di onestà”. Non rivelò mai la chiave dell’anagramma che conclude l’opera.


APPENDIX



I Mandala di Carl Gustav Jung

L’archetipo del mandala
“Mandala”, termine derivato da una parola in Sanscrito che significa “cerchio”. Il cerchio delimita uno spazio che rappresenta l’esteriorizzazione del proprio psichismo (sintesi della manifestazione spaziale).  Carl Gustav Jung scrisse quattro saggi sui Mandala, i disegni rituali buddisti e induisti, dopo averli studiati per oltre venti anni. La presenza dei mandala è rintracciabile in ambito indo-buddhistico nel Tibet lamaistico, nell’induismo tantrico, nel buddhismo Vajrayana tibetano, negli Indiani Navaho, negli indiani del Sud-Ovest (America). Sono chiamati mandala non solo le figure circolari ma anche le forme concentriche tipo: quadrati, triangoli, eccetera, purché rimangano presenti le caratteristiche principali: ovvero un centro dal quale l’energia viene emanata e una proiezione nello spazio-tempo. Il Sé nell’ottica junghiana diviene il punto di riferimento essenziale quale esempio di ciò che di meglio si può trovare nella natura umana, è quindi l’archetipo centrale o l’archetipo dell’ordine, attraverso il quale può sorgere il confronto e la rivalutazione della propria persona.
Per comprendere l’interpretazione mandalica di Jung occorre riferirsi ai concetti di “inconscio collettivo” e  di archetipo. Jung accoglie la nozione freudiana di inconscio, ma la modifica notevolmente. Egli riconosce l’esistenza di un inconscio individuale, che contiene i materiali repressi o rimossi di origine infantile, emergenti nel sogno o nella nevrosi, ma precisa come esso costituisca solo un aspetto della struttura di fondo della psiche, la quale, oltre a contenere la coscienza e l’inconscio individuale, ospita anche l’inconscio collettivo. Gli archetipi, come l’inconscio collettivo, di cui costituiscono la sostanza, presentano tre caratteristiche peculiari: l’universalità, l’impersonalità e l’ereditarietà.
Se l’inconscio personale consiste soprattutto in «complessi a tonalità affettiva», a cui è affidata l’intimità personale della vita psichica, il contenuto dell’inconscio collettivo è formato, invece, da archetipi. La loro presenza è ricorrente, per esempio, nei sogni, dove si manifestano spesso contenuti non individuali e non ricavabili dall’esperienza personale del sognante. Per ciò che concerne quest’ultima, occorre ricordare che Jung considera la mente «un prodotto storico alla stessa stregua del corpo in cui si trova ad esistere»(L’uomo e i suoi simboli), e spiega che essa «si è sviluppata fino alla sua fase attuale di consapevolezza nello stesso modo in cui la ghianda si viene trasformando in quercia o i sauri sono diventati progressivamente mammiferi. Essa si è venuta sviluppando per un lunghissimo arco di tempo e continua tutt’ora a svilupparsi»(L’uomo e i suoi simboli).
Secondo Jung, durante i periodi di tensione psichica, figure mandaliche possono apparire spontaneamente nei sogni per portare o indicare la possibilità di un ordine interiore. Il simbolo del mandala, quindi, non è solo un’affascinante forma espressiva ma, agendo a ritroso, esercita anche un’azione sull’autore del disegno perché in questo simbolo si nasconde un effetto magico molto antico: l’immagine ha lo scopo di tracciare un magico solco intorno al centro, un recinto sacro della personalità più intima, un cerchio protettivo che evita la “dispersione” e tiene lontane le preoccupazioni provocate dall’esterno. Nelle filosofie orientali il “mandala” viene utilizzato come mezzo per la meditazione e tramite la sua costruzione o inserimento, l’uomo libera lo spirito, purifica l’anima, entra in comunione con tutte le forze positive presenti nel cosmo.
Oltre ad operare al fine di restaurare un ordinamento precedentemente in vigore, un mandala persegue anche la finalità creativa di dare espressione e forma a qualche cosa che tuttora non esiste, a qualcosa di nuovo e di unico. Come afferma Marie-Louise Von Franz (allieva di Jung), il secondo aspetto è ancora più importante del primo ma non lo contraddice poiché, nella maggior parte dei casi, ciò che vale a restaurare il vecchio ordine, comporta simultaneamente qualche nuovo elemento creativo.
Nel mandala personale il centro è l’uomo stesso che si deve purificare, trasformando le forze negative che porta dentro. Nel mandala vengono espulse tutte le energie negative attraverso la meditazione, la presa di coscienza e la conoscenza del proprio Sé che avviene durante il processo di costruzione del mandala stesso. Mentre costruisce il mandala, dall’esterno verso l’interno, l’uomo si concentra, si individualizza, esegue quella ricerca interiore indispensabile perché si verifichi la catarsi, la purificazione.
Cambiamento radicale che lo porterà alla trasformazione totale, tanto da considerare il vissuto quale trapasso da uno stato antico e inadatto ad uno nuovo e attuale. Una morte simbolica seguita da una nascita ad un livello superiore.
La pratica del mandala persegue tre scopi: centrare, guarire, crescere. Centrare significa cogliere l’essenziale, valutare lo scopo prioritario dei valori della vita. Per guarire, si intende l’espellere i turbamenti, le forze perturbatrici, la malattia. Per crescere si intende il proiettarsi verso una nuova dimensione, verso la meta della catarsi.
Il paziente deve disegnare e colorare, secondo la sua immaginazione, una figura circolare. L’unica informazione che deve essere data al paziente è che lo spazio interno del cerchio rappresenta il suo “Io” e che deve essere colorato partendo dal centro.
Da questo disegno si possono trarre interessanti conclusioni osservando la forma del cerchio: se tracciato in modo nitido o tremolante, e analizzando i colori usati per tinteggiare l’interno.
La stessa costruzione e colorazione del cerchio hanno anche un fine terapeutico, tanto da creare una liberazione nel soggetto. In questo caso però il paziente deve sapere a priori che il simbolo porterà ad una graduale organizzazione e presa di coscienza del suo “Io”.
Nel cerchio l’uomo ritrova quelle forze che ha smarrito o che non ricorda di possedere. La forma circolare è il simbolo dal quale tutto è nato. Tramite il cerchio l’uomo può ricercare se stesso, protetto nello stesso tempo da ogni attacco esterno. Al riparo, nella tranquillità, riesce a scorgere il punto centrale, la fonte dalla quale scaturiscono tutte le energie e comprende il significato del proprio valore umano e nello stesso tempo divino.
Nei tempi passati gli sciamani curavano utilizzando proprio il mandala. Lo sciamano tracciava un cerchio nella sabbia e poi, con l’aiuto di alcuni assistenti tracciava simboli e figure utilizzando argille di diverso colore. In certi casi l’operazione durava anche qualche giorno. Il momento più importante della cerimonia si aveva quando si faceva sedere il malato nel centro del cerchio. Lo sciamano prelevava un pugno di sabbia dal cerchio e lo strofinava sul capo del paziente, specialmente nella zona interessata dal male, accompagnando il rituale con canzoni e formule magiche, per attirare l’attenzione degli spiriti benigni. Al termine del rito il paziente distruggeva il mandala con il suo corpo; il male veniva allontanato e in molti casi la malattia era immediatamente debellata.
Con il susseguirsi delle varie azioni rituali, nello sciamano si verificava una forte concentrazione psichica che alimentava la suggestione già presente dall’inizio della costruzione del mandala. Questa concentrazione psichica raggiungeva anche l’ammalato.
La distruzione del mandala era il culmine dell’evento del transfert uomo-figura: il male passava al mandala e tramite il mandala veniva annullato.
Al centro del mandala risiede il Sé, quale entità totale e completa.
Il Sé posto al centro dello spazio mandalico per Jung assume il valore di archetipo, indicando una preforma concettuale ereditata nel tempo dagli uomini che ci hanno preceduti.
L’archetipo quale sintesi conciliante, quale “simbolo unificatore” che riunisce, aggrega ciò che per altre vie rimarrebbe “scollato”, e tale riunificazione non può che avvenire su un piano più sottile e superiore, ecco perché Jung assegna alle figurazioni archetipiche la funzione trascendente.
I contrari si uniscono intimamente per annullarsi su un piano che li trascende ambedue, ecco il compito principale delle figure mandaliche, secondo il pensiero junghiano.
Jung studiò per oltre quattordici anni le figure mandaliche e giunse alla conclusione che si trattava sicuramente di archetipi collettivi, proprio per la regolarità e ripetitività dell’uso nelle varie epoche e culture.
Queste figure sono portatrici di caratteristiche comuni: presentano un centro verso il quale tutto il sistema figurativo è orientato, sono delimitati da un cerchio o da un poligono; altre volte le figure geometriche sono sostituite da figure che le rappresentano quali la raggiera di petali di un fiore, una croce, una ruota.
Per Jung i mandala, quali figure ordinate, sia nell’antichità che nei tempi moderni, rappresentano l’estetica e l’ordine, il bisogno ancestrale del ritrovare la dimensione spirituale, il senso mistico dell’esistere: l’uomo quale essere posto tra il cielo e la terra che anela alla sintesi tra i due mondi. L’ordine quale realizzazione di sintesi tra ciò che lasciato alla propria forza si disporrebbe caoticamente e che invece guidato dal bisogno della crescita interiore si organizza pur mantenendo la propria diversità individuale dalle singole parti componenti. Accordo e armonia diventano sinonimi dell’ordine. La constatazione empirica che queste immagini compaiono spontaneamente in situazioni di disorientamento psichico, è interpretata come una sorta di «tentativo di guarigione da parte della natura stessa»(Gli archetipi e l’inconscio collettivo), sforzo che non deriva da una riflessione cosciente, ma da un impulso istintivo.
L’accordo permette di sinergizzare e integrare ciò che isolato varrebbe poco o nulla. Parti diverse, addirittura in molti casi apparentemente opposte, si coniugano in uno sposalizio che li supera, completandoli e trascendendoli. La comparsa spontanea di raffigurazioni mandaliche, laddove sia percepita la necessità di ricondurre la propria percezione della realtà fisica e psichica a un ordine armonico, definisce la natura del mandala, non solo simbolo del sé, ma anche archetipo di individuazione e, cioè, immagine di quel processo sintetico teso a integrare l’inconscio alla coscienza.
Secondo Jung l’archetipo del mandala è rappresentabile simbolicamente da un cerchio contenente una disposizione simmetrica figurale del numero quattro e dei suoi multipli. Ogni altra figura che si allontani dal cerchio o dal numero base che è il quattro, viene definita quale “mandala turbato”.
“Il simbolo mandala è un fatto psichico autonomo, che si distingue per una fenomenologia che si ripete sempre ed è identica in ogni luogo. E’ una specie di nucleo atomico, di cui però non conosciamo ancora l’intima struttura e l’ultimo significato”. (Jung, 1950).
Jung chiama il processo di presa di coscienza “individuazione” che diventa il mezzo con il quale ognuno può impartire un nuovo impulso per orientarsi verso un cammino che lo porterà ad una visuale più ampia, nella quale scorgerà ciò che da se stesso deve essere allontanato.
“Ogni più alto stato di coscienza è condizione di una visione del mondo. Ogni coscienza di basi e di intenti è, in germe, una visione del mondo. Ogni progresso nell’esperienza e nella conoscenza significa un passo ulteriore nello sviluppo della visione del mondo. Modificando l’immagine che egli si crea del mondo, l’uomo pensante modifica anche se stesso. L’uomo il cui Sole gira attorno alla Terra è diverso da quello cui la Terra è satellite del Sole”. (Jung, 1950, ed. Einaudi, Torino, 1959).
La lettura di un mandala, che coincide, dunque, con il processo di individuazione junghiano, implica la partecipazione alla sistole e alla diastole dell’universo, preludio alla palingenesi dell’individuo.