Giù le mani da mio padre Ezra
Pound
Nel 2009 ha
avuto la sorpresa di trovare sul «New York Times» un commento sulla crisi dei
mutui che si apriva riportando dei versi scritti da suo padre all'alba della
Seconda guerra mondiale: «Con usura nessuno ha una solida casa». Versi maturati
su teorie economico-politiche che, dopo aver ispirato il suo appoggio al
fascismo, contribuirono a far rinchiudere per 13 anni Ezra Pound nel manicomio
criminale di Washington. Teorie che ora l'America rivaluta come intuizioni
profetiche contro lo strapotere di una finanza apolide, refrattaria alle regole
e non compassionevole. «Una piccola rivincita», la citazione giornalistica,
nella patria che aveva bandito il poeta come un traditore. Liberandosene con
una condanna alla pazzia (mai diagnosticata, comunque). Oggi sfoglia un dossier
di riviste italiane e si accorge che, sempre nel nome di suo padre, cresce «la
marea nera del terzo millennio»: il movimento CasaPound. Nei resoconti si parla
di «iniziative sociali e culturali» promosse dal network dell'ultradestra (lotte
per casa, maternità e agroalimentare autarchico), ma anche di «raduni
organizzati con disciplina marziale» da una «santa teppa» che si distingue per
«bomber di pelle, teste rasate e bandiere dalle simbologie gotiche».
E osserva su
Internet una sequenza di video che riassumono il gusto per certe «pratiche guerriere»
di questi militanti che, quando «ballano prendendosi a cinghiate»,
esprimerebbero solo un «vitalismo futurista», mentre invece per qualcuno le
loro sarebbero delle «mimetiche prove di violenza». Mary de Rachewiltz, figlia
dell'Omero americano del Novecento, riflette sulle contraddizioni del doppio
ritorno poundiano. Poi si concentra sugli ultimi ritagli, e si sfoga con
sgomento. «Questo è un altro modo di mettere Pound in una gabbia, com'era quella
del Disciplinary training center di Pisa dove fu segregato, la Guantanamo del
1945. Un danno enorme, perché nasce da una distorsione del significato del suo
lavoro e rischia di comprometterne ancora un pieno riconoscimento critico. Un
abuso, perché così lo si relega in una dimensione ambigua che va oltre il
reazionario, verso una cifra regressiva. E perché lo si indica, a ragazzi dalle
menti confuse, come un profeta tanto più affascinante in quanto pericoloso e
proibito». Per l'erede del poeta, insomma, «non si può restare sul
diplomatico», nel giudicare coloro che pretendono d'essere i «nipotini di
Pound». L'hanno elevato a oggetto di un culto a sfondo quasi mistico-esoterico.
E l'hanno inserito tra gli antenati ideali rievocando a mo' di slogan alcune
sue frasi «più o meno fiammeggianti pescate qua e là senza logica» dalla
stagione in cui sostenne Mussolini. Che «per mio padre fu un momento di
frattura molto complesso». E che perciò andrebbe riconsiderato, secondo lei,
sulla base di variabili spesso trascurate.
A partire
dalla sua visione della storia perché, spiega, «a lui interessava l'etica più che
la politica, e di Mussolini diceva che avrebbe voluto educarlo e che era stato
distrutto per non aver seguito i dettami di Confucio». È una difesa che la
signora de Rachewiltz, traduttrice e filologa dell'opera paterna che vive a
Tirolo di Merano, si concede con disagio. Essendo parte in causa, per lei
dovrebbero essere gli anglisti che hanno a cuore la memoria di Pound a
«battersi contro certe indebite appropriazioni». Ma decide di intervenire,
anche se il terreno è scivoloso, per offrire qualche indizio di ricerca a
quanti vogliono addentrarsi in una «questione tormentata e carica di
ipocrisie». La sua traccia d'esordio riguarda i malintesi sul rapporto America-Italia
da parte di coloro che sostengono di voler recuperare Pound. Chi, da sinistra,
emancipandolo dalla «radiazione» decretata nel dopoguerra e presumendo che
avesse rinnegato le proprie idee. Chi rivendicandolo alla destra, magari quella
estrema di CasaPound. Spiega: «Ci si dimentica che furono gli italiani, e
intendo i fascisti, i primi a non fidarsi di lui. La sua filosofia sociale — e
adesso si ammette che non era lontana dalla dottrina di Keynes — era scaturita
da una folgorazione mentre studiava le carte fondative del Monte dei Paschi e
vagheggiava un'Italia antiborghese in grado di recuperare la tradizione e
rinnovare il Rinascimento. Sognava un Paese che rifiutasse il capitalismo
trionfante in America, dove per lui erano stati stravolti i valori dei Padri
Pellegrini, basta scorrere il suo libro Jefferson and/or Mussolini per
sincerarsene. Voleva una gestione morale dell'economia, attraverso l'abolizione
dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo e del processo del denaro che produce
denaro, ossia il divinizzato mostro dell'usura che è motore dei circuiti
finanziari... Sraffa lo invitò a parlarne alla Bocconi, nel 1933, ma dubito sia
stato capito».
Ancora,
aggiunge la figlia di Pound, «erano sempre italiani i partigiani che lo
prelevarono a Rapallo urlandogli traditore e che avrebbero potuto fucilarlo, se
non avesse chiesto di essere consegnato subito alle forze americane. Lui parlò
con assoluto candore e sincerità perché aveva la coscienza pulita, del resto
non aveva mai tratto vantaggi dalla dittatura né fatto male ad alcuno. Si era
esposto fuori da ogni zona grigia perché era nella sua natura libera da
conformismi difendere ciò in cui credeva. "I stand exposed", aveva
scritto già da giovane. Ma ormai era in moto la macchina giudiziaria che l'avrebbe
stritolato senza nemmeno un processo». E qui si annoda un enigma dell'amletismo
poundiano. Il poeta, racconta Mary, che con la madre Olga Rudge lo seguì fino
alla morte a Venezia, nel '72, era «un uomo dalla fierezza gentile, un
altruista estraneo a qualsiasi forma di violenza». Caratteri testimoniati pure
da Eliot, Joyce, Hemingway e tanti altri che beneficiarono della sua generosa
intelligenza e amicizia. Restano però, e pesano come imbarazzanti corpi di
reato, i testi delle sue trasmissioni da Radio Roma e rivolti a Usa e Gran
Bretagna nella stagione dell'ultimo fascismo. «So bene quello che disse perché
ho fatto pubblicare in America tutte le trascrizioni integrali», racconta la
figlia. «Per giudicare i suoi discorsi radiofonici — aggiunge — bisognerebbe
mettere come tara la radicalità di uno che predica un'utopia da no-global ante
litteram, che vede intorno a sé il rischio dello sfacelo e si sente
"formica solitaria tra le rovine d'Europa". Aveva detto: "È
dovere di ognuno tentare di immaginare un'economia sensata, e tentare di
imporla con il più violento dei mezzi, lo sforzo di far pensare la
gente"».
Fu vittima
di un abbaglio? «Stando alla
lezione impartita dalla crisi di questi mesi, pare di no. Non del tutto. Le sue
invettive nascondevano piuttosto una forma di ira ingenua, espressa a volte in
forme furibonde. Voleva arrivare al paradiso possibile, alla città eterna...
Aveva una visione dantesca ed era molto critico verso Roosevelt, che era sceso
in conflitto con l'Italia, e verso i finanzieri di Wall Street (e, faccio
notare, che cosa dice in questi giorni il presidente Obama contro le banche?),
in larga parte ebrei, ciò che favorì l'accusa di antisemitismo. Accusa ingiusta
e basta pensare che i suoi più cari amici erano appunto ebrei — Aldo Camerino,
Giorgio Levi, Manlio Torquato Dazzi e tanti altri — senza contare che nessuno
di noi sapeva nulla della Shoah... Va considerato che Pound era un poeta, e
quando un poeta si arrabbia pronuncia frasi terribili, sragiona, e lo stesso
Dante bestemmiava contro la sua patria... Era tempo di guerra, una guerra che
le parole dei poeti non potevano fermare. Non letteratura e propaganda ci
voleva, ma saggezza». Dunque, Pound riteneva di non aver fatto nulla di male,
di aver esercitato un «diritto alla protesta» sancito dalla Costituzione
americana, «che voleva salvare nei suoi valori originari assieme alla cultura
dell'Europa». Ma come giudicò se stesso, a posteriori? Si pentì? «Riconobbe i
suoi sbagli, certo, e ci sono i frammenti poetici della vecchiaia a dimostrarlo:
"Ammettere i propri errori senza perdere la rettitudine"... "Un
uomo che cerca il bene e fa il male". Ma senza rinnegare se stesso o il
fascismo in quanto tale, perché non era affar suo. E neppure poteva ritrattare
la sua convinzione che il fascismo, allora, andasse bene in Italia, restando in
fondo convinto di aver fatto una cosa giusta: era stato il primo a capire il
dramma, sociale e culturale, al quale avrebbe portato una certa economia...».
«Nei suoi
ultimi dieci anni di vita — conclude Mary de Rachewiltz — non parlò più con nessuno, e con noi
familiari appena il necessario. Ora, siccome per la legge americana chi sta
muto si dichiara innocente, quel silenzio poteva essere interpretato come una
dichiarazione d'innocenza. Ma pentirsi di errori di giudizio non significa
rinnegare. La realtà era più complessa: mio padre si era reso conto che non
riusciva a farsi capire. "Il silenzio è la voce di Dio", mi disse il
prete di San Giorgio dopo aver celebrato il suo funerale. Evidentemente, se
continuano a fraintenderlo, quella sua lunga pausa non è bastata».
Marzio Breda
01 aprile 2010 Fonte: Repubblica.
01 aprile 2010 Fonte: Repubblica.
Certo Ezra Pound non puo' essere l'ispiratore dei neonazisti napoletani che avevano il progetto di stuprare una studentessa ebrea....
RispondiEliminaQuesta feccia neonazista usurpa il nome di Ezra Pound che rimarrebbr inorridito delle loro "gesta"....
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